Lentamente schiude, anche se incoraggiata, con un’armonia rigida, sospesa, sobbalzata che si spiega e torna a ripiegarsi malinconica. Il suo candore sterile mi ricorda la neve spolverata sulle strade prima di essere schiacciata dagli scarponi invernali, i fogli del taccuino accartocciati e gettati sul pavimento da chi ancora scrive lettere d’amore. Non ha odore, io le ho dato quello dei gigli quando fioriscono in estate in un’orchestra di movimento lento che riempie l’angolo di giardino sulla strada della mia casa in campagna.
Mi ci insinuo completamente, ne faccio la mia epidermide. Il mio odore, il mio suono, il mio movimento ne riempiono l’interno, lasciando al di fuori un’indifferente identità ancestrale.
Non mi prevarica, allaccia, o soffoca, bonariamente mi accompagna e mi accarezza le giunture dimentica di essere riempita di un corpo vivo.
Da quell’ impermeabilità vedo nitidamente le bocche della superficie lunare e, priva di gravità, ne esploro il profondo, raggiungo gli spazi consapevolmente e li riempio di presenza silenziosa per non sprecare respiro.
Dentro la tuta bianca le mie radici, le mie ramificazioni verticali che germogliano in anticipo dentro ai polmoni e lasciano cadere polline sulla curva dello stomaco.
Ecco il profumo dei gigli.
Eccomi. Io sono la mia tuta bianca.